Favret

Piccolo agglomerato di case posto a ponente del borgo a poca distanza e a nord della casa da Gioco in prossimità del torrente Grand-Valey le cui acque, frequentemente tumultuose a seguito di precipitazioni di particolare intensità, dovettero intimorire spesso i residenti. Prima della costruzione, poco a valle, della Casa da Gioco, dell’Hotel du Parc (già Hotel delle Vigne) e dell’imponente Grand Hotel Billia nonché di numerose altre costruzioni, Favret era totalmente cinto da prati foraggieri, campi di biondeggianti cereali e vigneti. L’intero comprensorio fu oggetto di grandissimi stravolgimenti che di fatto compromisero la plurisecolare tranquillità di questo minuscolo centro rurale avente però una grande importanza per l’economia a motivo della presenza in loco di attività industriali tanto che il toponimo Favret è senza dubbio riconducibile ad antiche attività imprenditoriali presenti in zona; in specifico il nome Favret deriva da Favro, cioè fabbro. La presenza in questa località di tale imprenditorialità è attestata già nella prima metà del XV secolo ed è ricavata dai verbali del processo di stregoneria tenutosi nel castello di Saint-Germain (Montjovet, Ao.), nei confronti di Caterina di Chenal. Questa donna, originaria della Svizzera, poi trasferitasi in un villaggio collinare di Saint-Vincent, avrebbe fatto morir con maldestre cure l’allora parroco di Montjovet. Arrestata ed imprigionata nel citato castello fu in seguito sottoposta dal Tribunale dell’Inquisizione ad un lungo processo; per convincerla a parlare si procedette anche con la tortura e dai già citati verbali si appura che i “ferri” necessari furono commissionati ad un fabbro di Saint-Vincent il cui laboratorio era situato in frazione Favret. E’ da dire che le poche case che compongono questo minuscolo abitato sono state lambite per secoli da un grosso canale che deriva dal Canale della Pianura. Questa importante realtà costituita da vigorose ed abbondanti cascate d’acqua ha inoltre garantito per secoli sufficiente acqua ad altre strutture quali mulini da grano, “piste” (o frantoi) e folloni. Purtroppo non disponiamo di dati e informazioni relativi all’età medievale e tardo-medievale ma per contro il toponimo e carte più recenti ci illustrano e ci descrivono un’attività imprenditoriale di tutto rispetto. Nei primi anni del ventesimo secolo erano ancora operativi i mulini di Beniamino Séris, di Lorenzo Buil e infine di Pietro Crétier; nel primo caso sappiamo che era provvisto di due ruote orizzontali “a cucchiaie” che azionavano due coppie di macine in pietra e uguale situazione la ritroviamo nel secondo caso mentre è leggermente diversa la situazione concernente il mulino con annesso frantoio appartenente al notaio Pietro Crétier (padre del più noto e sfortunato Amilcare, grande scalatore morto tragicamente l’8 luglio 1933 al ritorno da una ascensione al Pic Tyndall, nel gruppo del Cervino, insieme ad Antonio Gaspard e Basilio Olietti). Quest’ultimo mulino, decisamente più grande e strutturalmente più moderno, necessitava di più acqua (circa 100 litri al minuto) e secondo una relazione redatta nel 1928 e oggi conservata nell’Archivio Comunale, produceva una forza motrice di HP nominali pari a valore 4. Ma le fonti storiche non si limitano a parlarci di questi tre mulini: una grande importanza sembrerebbe aver avuto per molto tempo il frantoio di Giuseppe Bello nei pressi del quale erano portate le fascine della canapa. La memoria storica di alcuni anziani raccolta oralmente, ricorda che nei pressi del villaggio erano presenti alcune vasche in cemento in cui erano messe a macerare enormi quantità di canapa in attesa di essere successivamente portate ai frantoi o “folloni”, ovvero strutture artigianali che servivano a “battere” e sfibrare il consistente arbusto in previsione della filatura. Poco più a nord va invece segnalata la presenza del mulino e della forgia di Emilio Artaz; presumibilmente per secoli l’artifizio era composto da un mulino e pur con le più varie difficoltà funzionò fino ai primi anni venti del novecento. In quel periodo un violento incendio distrusse tutte le strutture componenti il mulino (che come è noto erano quasi totalmente in legno); gli allora proprietari decisero di riconvertire l’impianto e insediarono al suo posto una forgia per la lavorazione di manufatti in ferro. L’attività, decisamente specializzata e particolare, non ebbe però il successo sperato e dopo appena un decennio, e anche a seguito di un cedimento strutturale dell’edificio, si decise di chiudere definitivamente l’impianto tanto che già nel 1929 si legge in un rapporto del Genio Civile che la “…fucina di Emilio Artaz è attualmente abbandonata in seguito alla demolizione parziale del fabbricato…”. Ai nostri giorni, con le già citate strutture turistiche, Favret sembra costantemente assediato dalle macchine e la sua stretta stradina interna non trasmette più i rumori e gli odori di quelle plurisecolari attività artigianali e agricole, sole ed uniche garanzie di sopravvivenza delle famiglie dell’epoca. Personaggi della piccola frazione sono il già citato Emilio figlio di Pierre-Joseph Artaz; quest’ultimo, per anni emigrante nell’area francofona, apprese tutti i segreti del mestiere di mugnaio che trasmise al figlio Emilio (noto con il nome di Mio de Pin) che continuò l’attività diversificandola, appunto con la costruzione della forgia. Altro personaggio di Favret, che qui vi edificò la sua abitazione, è Carlo Gabriele Cotta (1918-1978). Figlio di famiglia nobile di origine astigiana, fu combattente in Francia e sul fronte Greco-Albanese, ottenendo la medaglia d’argento al Valor Militare. Partecipò attivamente alla lotta partigiana sul Monferrato comandando la Settima Divisione; in seguito, grazie alla sua preparazione, predisposizione e studi scolastici, per lungo tempo sarà presente nei consigli di amministrazione di numerose società e infine giungerà a Saint-Vincent dove per alcuni decenni guiderà la Sitav, società che gestirà per circa cinquant’anni la locale Casa da Gioco.

CRETIER Piergiorgio